A Palù del Fersina, comune di nemmeno 200 anime abbarbicato nell’alta Valle dei Mòcheni (Bersntol in lingua locale), a soli 20 km da Trento e a quasi 1400 metri di altitudine, ogni anno si celebra il tradizionale carnevale, secondo rituali antichi.

Festeggiamo il martedì grasso in questo modo da sempre, da quando ci sono i Mòcheni, ed è una tradizione esclusiva del nostro paese, di Palù.

Così spiega un’anziana donna che insieme alla folla raccolta in Piazza aspetta pazientemente, lo sguardo rivolto verso l’alto. I paesani si scambiano battute in un dialetto incomprensibile, la lingua mòchena, diretta derivazione del tedesco antico, importato nel medioevo da coloni provenienti dall’area germanica che si stabilirono nella valle, al soldo dei feudatari locali. Per secoli i migranti lavorarono nelle miniere della Valle, diffondendo suggestive leggende che avevano come protagonisti folletti, gnomi e tesori nascosti. Si narra ad esempio che dodici enormi bocce d’oro sarebbero nascoste in una misteriosa e prolifica miniera d’oro, nascosta nel ventre della montagna. L’esatta posizione della miniera è ignota, ma sarebbe indicata da un bagliore visibile solo guardando le cime al calar del sole dalla porta della chiesa, in un preciso ma ignoto giorno dell’anno.

Il carnevale di Palù del Fersina, nell’alta Valle dei Mòcheni, è una celebrazione che trae origine dagli antichi riti d’avvento della primavera.

Stiamo aspettando di scorgere der bètscho e de bètscha, (il vecchio e la vecchia), che hanno già iniziato la rituale visita ai masi alti, seguiti da der òiartroger (il raccoglitore di uova), impegnato a riporre le offerte dei padroni di casa nel kraks, la cassetta che porta sulle spalle. Il trio va di maso in maso ad augurare prosperità per l’avvenire, un buon raccolto agli agricoltori e buoni affari ai mercanti.

Un grido accoglie la vista dei vecchi, che sbucano da un tornante e scendono a rotta di collo per il ripido pendio innevato, spesso scivolando, incespicando e provocando risate divertite, specialmente dei bambini, in maschera per l’occasione. I due bètschi, vestiti degli abiti tradizionali, uno con la parrucca, l’altro con un foulard attorno al capo, hanno il volto imbrattato di nero fumo e sono impersonati da due “coscritti”, ragazzi che quell’anno raggiungeranno la maggiore età. Sono entrambi maschi, come è giusto che sia in una società di stampo maschilista come quella mòchena.

Una volta arrivati nel piazzale si mettono a danzare freneticamente al ritmo della musica suonata dalla banda. Ciascuno simula uno svenimento e viene amorevolmente curato dal consorte, che a suon di bicchierini di grappa, nell’ilarità generale, lo fa rinvenire. Poi i due, seguiti dal corteo dei presenti, si spostano nella locanda dove leggono il “testamento”, preziosi consigli in rima per i coscritti, ben riconoscibili dalla bandana con stampato 1996, l’anno di nascita, e dai particolari cappelli, decorati con penne di gallo forcello. Alle ragazze nubili che partecipano alla celebrazione i due vecchi tracciano un segno nero sul viso, in modo che tutta la comunità sappia che sono libere.

Tutti i presenti vengono poi chiamati fuori dalla locanda a gran voce e viene distribuita la torta, come buon augurio contro i morsi di serpente, retaggio di un passato nemmeno troppo lontano, quando ci si recava spesso nei boschi, per spostarsi, per rifornirsi di legna o per raccogliere i funghi, e non era raro imbattersi in una vipera.
Intanto tutto il paese si è fermato: i cittadini sono fuori a ballare o al bancone del bar, a bere una birra in compagnia, tra una concitata partita di morra e l’altra.
Dopo il lancio delle teglie delle torte nei campi innevati, i due vecchi proseguono la loro visita dei masi bassi, scomparendo nei vicoli stretti. I festeggiamenti riprenderanno verso sera, quando verrà preparato un grosso fuoco in cui saranno lanciati anche la gobba del vecchio e i fogli del testamento. Il falò che arde segna la fine del rigido inverno e il prossimo arrivo della primavera. Nel frattempo il pallido sole sta tramontando e mi dirigo speranzosa verso la chiesa di Palù, per cercare di avvistare il bagliore dell’oro.

 

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