Cochin, le sue isole unite alla terraferma da ponti sull’acqua salmastra. Un posto fatato, dal fascino irresistibile, paragonabile a quello di Venezia.
La laguna, i canali e il porto, ancora oggi uno dei più grandi dell’India, con la sua storia.
Il via vai di genti, i commercianti dell’est, con le loro spezie, le loro sete, e quelli dell’ovest, qui a riempire le stive delle loro navi di chiodi di garofano e noce moscata.
La sovrapposizione di dominatori, il crogiolo di culture.
E oggi, le loro tracce immobili. Solo quelle, impolverate e vivide, tra i vicoli silenziosi della sonnacchiosa Mattancherry. Le case basse, con i tetti di tegole rosse, i patii, i muri intonacati di bianco, le persiane e le porte azzurre. E poi le chiese. Questa è l’eredità del Portogallo. Era il 1503 quando arrivò qui sulle caravelle di Vasco da Gama, le cui spoglie riposarono qui per qualche tempo, nella chiesa di San Francesco, la più antica di tutta l’India. Violenta la dominazione lusitana, ma poco invasiva. Calicut, Daman, Diu, Cochin: solo quattro teste di ponte nel Malabar, la costa sud- occidentale dell’India, per controllare i commerci marittimi.
Poco distante il Dutch cemetary, un fazzoletto di erba incolta, con lapidi che a mala pena si intravedono. Ecco la traccia di un altro dominatore: l’Olanda, che scalzò il piccolo e potente stato iberico a metà del ‘600, per essere scalzata a sua volta dagli inglesi, un secolo dopo.
Più avanti un grande campo di terra rossa, dove formicolano ragazzi impegnati in una partita di cricket, il più significativo retaggio britannico, insieme alla guida a sinistra.
E poi ci si addentra a Jew town, il quartiere ebraico. I primi ebrei, in fuga dalla Palestina, vi giunsero 2000 anni fa. Ebbero vita dura con i portoghesi, l’inquisizione fu feroce, anche qui. Oggi la comunità non arriva a venti unità. Resta un dedalo di viuzze, punteggiato di negozi di spezie: polvere di peperoncino, rugginoso masala, minuscoli chicchi di mostarda, preziosi semi di cumino, cardamomo dolciastro, ruvidi grani di pepe. E il susseguirsi di negozi di antiquariato, con venditori dalla voce suadente, che attirano nelle loro botteghe delle meraviglie, tra portali in legno cesellato, bronzee statue pagane e crocifissi, angeli, ossari trafugati dalle chiese. E in fondo, la sinagoga, con i suoi lampadari di vetro di murano, le sue eleganti piastrelle cinesi, dipinte a mano con salici blu.

All’estremità settentrionale, l’isola è orlata da una lunga spiaggia: a Fort Cochin le enormi reti da pesca, issate come vele su piattaforme in legno, a pochi metri dalla riva, sono una testimonianza del passaggio della Cina, con le sue rotte e i suoi mercantili.
I pescatori trafficano tra le loro canoe nere- troppo simili a quelle della nostra repubblica marinara- e ripiegano le reti.
La vita prosegue, nella malinconica Cochin, così indifferente al suo passato stratificato.
E mentre i procacciatori di clienti invitano ad acquistare pesce appena pescato per poi farselo immediatamente cucinare sulla griglia, i gatti sonnecchiano all’ombra delle gondole.
L’ambientazione ideale per un episodio di Corto Maltese. Sarebbe piaciuta a Hugo Pratt, Cochin. E anche al suo marinaio gitano.

 

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